Quando parliamo di professioni ICT e competenze tecnologiche, stiamo in realtà parlando di un tema più ampio che riguarda la cultura digitale e il suo ruolo nel sistema formativo e imprenditoriale italiano. Quel che emerge dall’Osservatorio delle Competenze Digitali 2018 - voluto e condotto da AICA, ASSINTER Italia, ANITEC-ASSINFORM, ASSINTEL ITALIA, in collaborazione con AGID (Agenzia per l’Italia Digitale) e il Ministero dell’Istruzione - è che le aziende stanno crescendo e inglobando velocemente le più recenti tecnologie e la richiesta di professionisti ICT per il triennio 2016-2018 è stata molto alta, intorno agli 85mila di cui 65mila nuove risorse e 20mila lavoratori da ri-formare e aggiornare.
Dalle università ogni anno escono circa 8mila laureati che, oltre a essere troppo pochi per soddisfare le esigenze delle aziende, sono anch’essi parte di un loop di azioni e scelte che non stanno portando al reale cambiamento e miglioramento di cui ci sarebbe bisogno.
In primo luogo sarebbe necessario un piano di innovazione e collaborazione tra le scuole, le università, gli istituti di ricerca, le imprese e le associazioni, per offrire un percorso formativo completo e che si adegui alla velocità con cui cresce la domanda di nuove professioni digitali e al cambiamento delle tecnologie. Per preparare i ragazzi al digitale già molto prima che entrino nel mondo del lavoro, c’è bisogno che il sistema formativo pubblico aggiorni rapidamente i corsi, che le università attivino sempre nuovi percorsi di studi, che aprano più istituti tecnici superiori con competente ICT. Se il futuro è quello delle App e del software mobile, della security e dei Big Data, è fondamentale che i giovani vivano da protagonisti questo processo di cambiamento culturale, per metabolizzare e familiarizzare con quelli che saranno i nuovi modelli di lavoro, le dinamiche della condivisione a distanza e dello smart working.
In secondo luogo, a completare questo circolo vizioso di contraddizioni, c’è l’esigenza che le imprese investano denaro per la formazione interna dei dipendenti, affinché essi siano in grado di applicare tecnologie digitali per ogni specifico processo dell’azienda. Ma il problema, come ha fatto notare Michelangelo Conte, socio fondatore della 3puntozero, sta proprio nella difficoltà delle aziende nel reperire le nuove risorse, soprattutto valide e competenti. Tali figure sono ancora troppo rare e, di conseguenza, economicamente insostenibili per le piccole e medie imprese.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che alle skill di natura tecnologica vanno necessariamente affiancate le soft skill, ovvero competenze di processo e di gestione che hanno più a che fare con la personalità dell’individuo che con le sue competenze professionali. In altre parole, anche se un professionista è in grado di programmare o è un abile marketing copywriter, deve possedere o perfezionare le proprie qualità e gli atteggiamenti individuali, le abilità sociali, comunicative e gestionali: il problem solving, la capacità di lavorare in team, la motivazione, la creatività, la flessibilità e la gestione del tempo.
La digitalizzazione deve essere fedele alleata in questo percorso di cambiamento e di educazione delle risorse, con l’obiettivo di ridurre il digital skills gap a ogni livello, dalle competenze specialistiche alle competenze necessarie a tutti i cittadini italiani ed europei per vivere, lavorare e partecipare a un’economia e una società digitali. In quest’ottica di trasformazione digitale delle imprese, la 3puntozero ha scelto di sostenere e accompagnare i propri dipendenti e collaboratori in questo percorso di upskilling e reskilling attraverso corsi di aggiornamento in campo non solo tecnico e tecnologico, ma anche di marketing e management. Un’attenzione particolare è dedicata ai giovani che, attraverso programmi e attività di formazione, vengono introdotti attivamente in azienda e preparati alla (ormai fin troppo imminente) rivoluzione digitale di cui saranno i veri protagonisti.